Qual è il segreto dell’uomo, chi è nel «Oratio» di Giovanni Pico della Mirandola e quale è il suo futuro in alcuni Padri e Santi della Chiesa.

L’uomo dell’Oratio, composta nel 1486, è una eccellente descrizione dell’uomo come una creatura senza immagine, o dall’immagine indeterminata, cioè dell’opus indiscretae imaginis, ma comunque come immagine di Dio, un Dio che si nasconde nell’oscurità (Pico chiama l’uomo anche: ‘solitaria caligine del Padre’). Da questa introduzione parte la sua ricerca della vocazione dell’uomo che è chiamato di attraversare e trascendere ogni immagine attingendo, percorrendo «una ‘via’ in tre stadi: la trasformazione etica (azione), la ricerca intellettuale (contemplazione), e la perfezione finale nell’identificazione con la Realtà ultima». Secondo Pico «questo paradigma è universale perché può essere trovato in ogni tradizione a lui nota: cristiana, ebraica, ellenistica, egizio-ermetica, caldaica …».

«O Adamo, non ti ho dato né una sede determinata, né un aspetto tuo particolare, né alcuna prerogativa a te solo peculiare, perché quella sede, quell’aspetto, quella prerogativa che tu desidererai, tu te le conquisti e le mantenga secondo la tua volontà e il tuo giudizio. La natura degli altri esseri, stabilita una volta per sempre, è costretta entro leggi da me fissate in precedenza. Tu invece, da nessun angusto limite costretto, determinerai da te la tua natura secondo la tua libera volontà, nel cui potere ti ho posto. Ti ho messo al centro del mondo perché di lì più agevolmente tu possa vedere, guardandoti intorno, tutto quello che nel mondo esiste. Non ti ho fatto né celeste né terreno, né mortale né immortale, perché tu, come se di te stesso fossi il libero e sovrano creatore, ti plasmi da te secondo la forma che preferisci. Tu potrai degenerare abbassandoti sino agli esseri inferiori che sono i bruti, oppure, seguendo l’impulso del tuo animo, rigenerarti elevandoti agli spiriti maggiori che sono divini»[1].

Come si nota la peculiare grandezza dell’uomo come l’immagine e somiglianza dell’uomo nascosta nel dono della libertà. Dio crea l’uomo libero, padrone del proprio destino e «ottimo artefice», facendolo oggetto della propria «liberalitas» sul piano del conoscere, ma nello stesso tempo diverso da Lui perché è Dio a creare l’uomo, ma dopo il peccato originale il distacco fra l’uomo e Dio è diventato infinito altrettanto grande come è infinità la sua libertà.

Di questa l’infinità dell’uomo, che è «divino camaleonte», può servirsi a piacimento e secondo l’esigenza di una qualsiasi delle qualità che possiede, e questo gli dà un vantaggio considerevole rispetto alle altre specie viventi. L’uomo è dotato quindi di una adattabilità invidiabile, nonché del libero arbitrio. Questa libertà di realizzazione umana pone l’uomo al di sopra degli angeli stessi, i quali sono fissi nelle gerarchie celesti, senza alcuna possibilità di miglioramento.

È questo il senso dell’uomo ‘camaleonte’, capace per dote naturale di trasformarsi in forme più elevate o più infime nella catena dell’essere, e questo potere trasformativo è ciò che meglio distingue la libertà umana. Tale plasticità della natura umana dipende da una libertà divina. L’uomo è padrone di sé stesso, conserva la sua signoria sul cosmo; non la perde affatto in virtù del riposizionamento umano al centro del cosmo, del quale Dio è e resta creatore assoluto. È Dio, non l’uomo, ad aver voluto, sin dalle origini, porre al centro del creato l’uomo: «Una volta compiuta l’opera, l’artefice desiderava che ci fosse qualcuno capace di intendere il senso di una creazione così magnifica, di amarne la bellezza, di ammirarne la grandezza» aggiunge Pico.

L’uomo di fronte a Dio come tale è nulla, ma può farsi tutto; non è «ente», nel senso classico del termine, ma nodo universale che conduce il tutto verso Dio. Questa caratteristica di unire tutto, libera in lui la sintesi di terreno e di divino, perciò l’uomo non è cosa, è anche spirito, che tutto afferra facendosi tutto, che tutto sa in quanto fa, e il cui fare, per quanto sempre parzialmente inadeguato, è un fare divino. In questa direzione prosegue l’interpretazione di A. Pellegrini il quale sostiene che per Pico l’idea dell’uomo è partecipe sostanzialmente di tutto il creato; l’uomo è l’unico essere che con alcune caratteristiche e in quanto singolo può decidere a che cosa assomigliare e a che cosa sviluppare avvalendosi della propria libertà.

La libertà umana celebrata da Pico si concentra sul tema della creazione dell’uomo per far sì che tale creazione perfetta venga apprezzata e vissuta da tutto il creato: «la natura limitata degli altri è contenuta entro le leggi da me prescritte. Tu te la determinerai da nessuna barriera costretto, secondo il tuo arbitrio, alla cui potestà ti consegnerai. Ti posi nel mezzo del mondo perché di là meglio tu scorgessi tutto ciò che è nel mondo».

L’uomo, che non ha una sua natura particolare e che è stato posto da Dio al centro del mondo, gode di un’assoluta libertà che gli consente sia di raggiungere la suprema perfezione divina sia di abbassarsi alla condizione dei bruti (la libertà comporta le conseguenze): «tu potrai degenerare nelle cose inferiori che sono bruti; tu potrai, secondo il tuo volere, rigenerarti nelle cose superiori che sono divine».

 

Questa libertà dell’uomo è stata molto discussa tra i contemporanei di Pico e ciascuno di loro ha dato da una parte il proprio contributo alle tesi picchiane e d’alta parte ha fatto riemergere il complesso della problematica della libertà e dell’essere umano. L’uomo è tutto, perché può essere tutto, animale, pianta, pietra; ma anche angelo e “figlio di Dio”. E l’immagine e somiglianza di Dio è qui: nell’essere causa, libertà, azione; nell’essere risultato del proprio atto».

A queste considerazioni si può aggiungere qualche altra osservazione: se l’uomo risulta l’artefice della propria fortuna, l’accento cade sull’autonomia dei comportamenti e delle scelte, privilegiando quindi, implicitamente, la «virtù» rispetto alla «fortuna», l’agire rispetto alla pura contemplazione. Per la centralità della sua posizione, l’uomo realizza anche una condizione di equilibrio, che fa di lui un essere unico e privilegiato (e l’equilibrio è considerato un essenziale valore educativo e formativo dalla civiltà umanistico-rinascimentale): «l’artefice desiderava che ci fosse qualcuno capace di afferrare la ragione di un’opera sì grande, di amare la bellezza, di ammirare la vastità» conclude Pico.

Giovanni Pico porta il suo discorso sull’uomo sul aste verticale che da una parte si trova il suo successo: rigenerazione: «seguendo l’impulso del tuo animo, rigenerarti elevandoti agli spiriti maggiori che sono divini» e dall’altra il suo fallimento: diventare bruto: «tu potrai degenerare abbassandoti sino agli esseri inferiori che sono i bruti».

La libertà connessa alla dignitas hominis, altrove ritenuta privilegio concesso ad Adamo rispetto a tutte le altre creature, si è trasformata dopo il peccato originale in possesso precario e insidioso che, se pure offre la straordinaria opportunità di elevazione al divino, reca con sé, in quanto arbitrio di una potenza cieca e irrazionale come la fantasia, il più frequente (e ordinario) rischio della degradazione ontologica e morale.

Per rimediare questa dolorosa situazione Pico propone come modello e rimedio alla natura umana Cristo, ricordando il fatto della creazione dell’uomo e dell’universo: «l’uomo è la sintesi suprema di tutti gli esseri inferiori, così il Cristo è la sintesi suprema di tutti gli uomini».

L’uomo creato ad immagine e somiglianza di Dio riceve, come attributo più grande, inesistente in tutto il creato, la libertà. Come Dio è libero così anche l’uomo è libero e padrone della sua vita e delle sue decisioni. Analogia che troviamo nel libro della Genesi e in Giovanni Pico. Possiamo così concludere dicendo che dalla immagine che Dio condivide con l’uomo nasce il magnum miraculum: l’uomo libero e padrone di sé stesso. In questo sta la perfezione dell’uomo, nella sua libertà. E come Cristo è l’uomo perfetto, in cui lo Spirito Santo è presente senza limitazioni, così Dio per Pico, concede ad ogni uomo il dono della sua perfezione, perché possa diventare un altro Cristo perché è «la sintesi suprema di tutti gli uomini» e il modello da seguire.

La riflessione sull’uomo nell’Oratio possiamo quindi senza riserve collegarla con la professione di fede cristiana: Cristo è «Principio in cui Dio creò il cielo e la terra», in lui sono state create tutte le cose, quelle visibili e quelle invisibili; egli è l’alfa e l’omega, principio e fine, di tutte le cose. In Cristo abita la totalità divina, perciò egli è superiore agli angeli; la sua grazia tocca ogni uomo, il quale, nell’accogliere tale dono, viene elevato al di sopra della natura angelica.

Al termine, la figura di Cristo è la chiave di lettura e di interpretazione della creazione dell’uomo. Cristo realizza con chiarezza nella realtà dell’uomo, la sua grandezza. L’uomo «magnum miraculum», uguale avrà la sua giustificazione non perché è libero e perché crea sé stesso e il suo mondo, non perché è superiore alla natura e agli angeli e neppure perché congiunge in sé tutti i tre mondi, ma perché ha ricevuto la divinità di Dio nell’immagine e nella somiglianza.

Quindi l’eccezionalità dell’uomo risiede nella sua libertà, mentre la sua superiorità è opera esclusiva della grazia. Questa è la conclusione che Pico racchiude nell’Oratio: l’uomo vive nel tempo la vita del divino; realizza nel particolare l’universale, l’assoluto nel vero, nel bello e nel bene. Congiungere i contrari dando sapore alla vita e all’universo. Tutto questo lo può realizzare solo come «magnum miraculum» fatto a «immagine e somiglianza di Dio», creatura libera e padrone del suo destino che potrebbe essere: vita oppure condanna eterna: «tu potrai degenerare abbassandoti sino agli esseri inferiori che sono i bruti, oppure, seguendo l’impulso del tuo animo, rigenerarti elevandoti agli spiriti maggiori che sono divini».

Il più grande fin d’ora non appagato desiderio dell’uomo è darsi una risposta sulle cose ultime dell’uomo e del mondo. Seguendo logica di Giovanni Pico, abbiamo dimostrato la grandezza dell’uomo è nella libertà, dove in lui si rispecchia l’immagine e somiglianza di Dio. Se è così, allora possiamo avanzare la tesi: le cose ultime sono nella possibilità dell’uomo e questi devono in ogni caso dipendere dalla sua libertà di seguire Cristo e di conformarsi in Lui.

Nell’enciclica Fides et Ratio di Giovanni Paolo II si legge che nell’atto di fede che si esalta più in profondità la vera dimensione di libertà dell’uomo ed aggiunge che senza la fede non può esistere vera libertà: «l’uomo, redento da Cristo salvatore e chiamato in Cristo ad essere figlio adottivo, non può aderire a Dio che si rivela, se non presta a Dio un ossequi di fede e ragionevole e libero» perché «qui la libertà raggiunge la certezza della verità e decide di vivere in essa». Questa fede che coinvolge l’uomo si trasforma in un cammino che sempre si rinnova e porta alle cose ultime che Gesù ha rivelato durante la Sua vita terrena e ha dimostrato con la sua resurrezione dai morti.

La questione escatologica è particolarmente visibile nei momenti traumatici dell’esistenza umana come le fatali disgrazie, le malattie ed infine la morte. Il nostro dolore della morte sarebbe illimitato e inconsolabile se Dio non ci desse la possibilità d’essere liberi nelle scelte e in conseguenza di poter meritare la vita oppure la condanna eterna. Questo suppone che la nostra vita sarebbe inutile se finisse con la morte. Quale sarebbe allora il beneficio della virtù e delle buone opere? Allora quelli che dicono: “Mangiamo e beviamo, perché domani moriremo!” avrebbero ragione…?

Ma l’uomo è stato creato per l’immortalità: «Dio ha creato l’uomo per l’immortalità; lo fece a immagine ella propria natura. Ma la morte è entrata nel mondo per invidia del diavolo; e ne fanno esperienza coloro che gli appartengono» (Sap, 2, 23-24) e che grazie a alla risurrezione di Cristo e il Suo perdono possiamo entrare nel Regno dei Cieli e nella felicità eterna. La nostra vita terrena è allora la preparazione, o “l’esame della libertà”, in orizzonte della vita futura che inizia con la morte. “Se l’amore è cieco, tanto meglio si accorda con la notte” dice W. Shakespeare, in Romeo e Giulietta, invitando così a non seguire l’impulsi del cuore che spesso accecano la nostra ragione e rendono schiava la libertà ma cercare sempre la liberazione dalla schiavitù emotiva e sensitiva lasciando la ragione a guidare l’intera vita umana.

La tradizione dei Pardi insegna che con la morte l’uomo lascia tutte le sue preoccupazioni terrene; il corpo si decompone per risorgere nella Resurrezione Universale e ricevere la sua ricompensa. Ma la sua anima continua a vivere e non interrompe nemmeno per un momento la sua esistenza. Quando smette di vedere con gli occhi del corpo, inizia a vedere con gli occhi dello spirito.

S. Teofano in una lettera alla sorella morente scrive: “Ma tu non morirai. Il tuo corpo morirà, e passerai in un altro mondo, viva, ricordando sé stessa e conoscendo tutto il mondo intorno a te”. Dopo la morte, l’anima è viva e più consapevole di quanto non fosse prima della morte secondo san Ambrogio di Milano: “Perché l’anima rimane viva dopo la morte, rimane il bene che non muore con la morte, ma cresce. L’anima non è trattenuta da ostacoli posti dalla morte, ma è più attiva perché agisce nella propria sfera, senza alcun collegamento con il corpo che è più un peso che un beneficio per lei “.

Santo abate Doroteo, il padre del monachesimo di Gaza del VI secolo, riassume l’insegnamento dei primi Padri sulla vita eterna: “perché, come dicono i Padri, le anime ricordano tutto ciò che era qui: le parole, le azioni e i pensieri. E nulla viene dimenticato dall’anima di ciò che ha fatto su questo mondo, ma ricorda tutto dopo aver lasciato il corpo, ancora più chiaramente e limpido, perché è libera dal giogo del corpo terreno”.

San Giovanni Cassiano sullo stato dell’anima dopo la morte del corpo disse: “dopo essere stata separata dal corpo, l’anima non rimane oziose, né rimane incosciente; lo dimostra la parabola evangelica del ricco e di Lazzaro … Le anime dei morti non solo non perdono la coscienza, ma non perdono nemmeno le loro tendenze, cioè la speranza e paura, gioia e dolore, e stanno già cominciando a gustare qualcosa di ciò che si aspettano per sé stessi nel Giudizio Universale … Diventano più consapevoli, si dedicano ancora di più a lodare Dio. E infatti, se consideriamo le testimonianze delle Scritture sulla natura dell’anima stessa, troveremo in essa risiede l’immagine e la somiglianza di Dio. Dopo la morte l’anima è consapevole del suo possibile futuro e desidera che accada quanto prima se la visione è benevola altrimenti vive il grande tormento aspettando l’aiuto dalle preghiere per non soffrire le pene eterne”.

S. Macario di Alessandria spiega perché le preghiere della Chiesa per l’anima del defunto il terzo giorno dopo la morte: “quando un sacrificio viene portato nella Chiesa il terzo giorno, l’anima del defunto riceve dall’angelo che la custodisce il sollievo nel dolore che prova dopo la separazione dal corpo (… Perché nei primi due giorni all’anima è permesso di camminare sulla terra con gli angeli al suo fianco, ovunque desideri. Pertanto, un’anima amante del corpo a volte vaga per la casa dove si è separata dal corpo, a volte vicino alla tomba in cui il corpo è deposto; e trascorre due giorni come un uccello che cerca un nido per sé stesso. E un’anima virtuosa cammina in quei luoghi dove ha l’abitudine di fare il bene). Il terzo giorno, Colui che è risorto dai morti comanda, seguendo il modello della sua risurrezione, ogni anima ascende al paradiso cristiano per adorare Dio di tutti e di tutti “. Nell’atto di seppellire i morti, S. Giovanni Damasceno descrive vividamente lo stato dell’anima che si è separata dal corpo, ma è ancora sulla terra, cercando impotente di contattare i propri cari che vede: “che grande miseria sperimenta un’anima che si separa dal corpo! Quanta poi piange e non piange. Chi se ne pentirà! Alzando gli occhi agli angeli, prega impotente, tendendo le mani alla gente, non trova aiuto. Perciò, miei amati fratelli, pensando alla nostra breve vita, chiediamo a Cristo riposo per colui che è morto e grande grazia per le nostre anime “.

Padri della Chiesa parlano anche dello stato d’anime al giudizio finale. Alcune anime dopo quaranta giorni sono poste in condizioni in cui provano un assaggio di gioia e felicità eterne, e altre nella paura del tormento eterno che verrà completamente dopo il Giudizio Finale. Fino a questo punto, i cambiamenti sono ancora possibili, soprattutto portando per loro il Sacrificio di Cristo cioè la s. Messa ed altre preghiere. L’insegnamento della Chiesa sullo stato delle anime in paradiso e all’inferno prima del Giudizio Universale è presentato in dettaglio in S. Marchio di Efeso. Il beneficio della preghiera, sia pubblica che privata, per le anime all’Inferno è stato ripetutamente descritto nelle Vite dei Santi e negli scritti ascetici e patristici. Ad esempio, in la vita di Perpetua, una martire del III secolo, il destino di suo fratello Dimocrate le fu rivelato in un’immagine di una cisterna piena d’acqua così alta che non poteva raggiungerla dalla stanza sporca e insopportabilmente calda in cui era chiusa. Grazie alle sue insistenti preghiere, che durarono tutto il giorno e la notte, riuscì a raggiungere la cisterna e Perpetua lo vide in un luogo luminoso. Da questo capì che era stato liberato dalla punizione. Una storia simile si può trovare nella vita di un asceta morto nel XX secolo. La vita di suor Athanasia (Anastasia Łogacheva), la figlia spirituale di S. Serafina Sarowski, dice: “Ai suoi tempi creò problemi di preghiera per il suo fratello naturale Paolo, che si impiccò ubriaco. Prima andò dalla Beata Pelagia Ivanovna, che viveva in un monastero di Divieva, per chiedere cosa potesse fare per migliorare il destino postumo di suo fratello, che, terminò indegnamente la sua vita terrena. Dopo il concilio, fu deciso: Anastasia avrebbe dovuto chiudersi nella sua cella, digiunare e pregare per suo fratello, e leggere 150 volte al giorno la preghiera “Vergine Madre di Dio, gioisci” … Dopo 40 giorni ebbe una visione: vide una profonda voragine, in fondo alla quale giaceva una pietra insanguinata, e su di essa – due uomini con catene di ferro al collo, uno dei quali era suo fratello. Quando parlò alla Beata Pelagia di questa visione, le consigliò di ripetere i suoi sforzi. Dopo altri 40 giorni, vide lo stesso baratro, la stessa pietra su cui giacevano le stesse due persone con le catene al collo, tranne che suo fratello si alzò e camminò intorno alla pietra, e poi ricadde sulla pietra e la catena si avvolse di nuovo intorno al suo collo. Quando ne parlò a Pelagia Ivanovna, quest’ultima le consigliò per la terza volta di sopportare lo stessa pratica spirituale. Dopo altri 40 giorni, Anastasia vide la stessa voragine e la stessa pietra, sulla quale c’era un solo uomo sconosciuto, e suo fratello si allontanò dalla pietra e si nascose. Rimanendo sulla pietra disse: ‘Buon per te; hai forti intercessori sulla terra. Dopo questo la Beata Pelagia disse: “Tuo fratello è libero dal tormento, ma non era felice”. Ci sono molti casi simili in Vite di santi e asceti ortodossi. Per coloro che tendono a prendere tali visioni troppo alla lettera, dovremmo forse dire che, naturalmente, le forme che tali visioni assumono (di solito nei sogni) non sono necessariamente rappresentazioni “fotografiche” del modo in cui l’anima appare in un altro mondo, ma piuttosto lo sono immagini che trasmettono la verità spirituale sul miglioramento del destino dell’anima in un altro mondo attraverso le preghiere di coloro che rimangono sulla terra.

San Gregorio Magno, rispondendo nei suoi Dialoghi alla domanda “C’è qualcosa che possa essere utile per le anime dopo la morte”, rispose: “Il santo sacrificio di Cristo, il Suo sacrificio salvifico, dà alle anime un grande beneficio dopo la morte, così le anime dei morti ci implorano di celebrare per loro le s. messe … Il Santo fornisce alcuni esempi quando il sacrificio di Cristo reca non solo il sollievo ai defunti ma anche ai vivi: una volta un prigioniero, la cui moglie credeva fosse morto, ha fatto celebrare le s. messe in determinati giorni. Quando tornò dalla prigionia raccontò come in questi giorni fu liberato dalle sue catene – e questi erano esattamente gli stessi giorni in cui la moglie faceva celebrare le messe e riceveva la comunione.

Ultima parte di questo lavoro è dare uno sguardo sulla resurrezione dai morti e la vita eterna. Secondo Credo Cattolico un giorno questo mondo finirà e sorgerà l’eterno Regno dei Cieli, in cui le anime dei redenti unite ai loro corpi risorti vivranno con Cristo per sempre, immortali. La gioia e la gloria parziali che l’anima conosce anche ora in cielo saranno sostituite dalla pienezza della gioia nella nuova creazione per la quale l’uomo è stato creato; ma coloro che non hanno accettato la salvezza che Cristo è venuto sulla terra per offrire all’umanità saranno tormentati per sempre – insieme ai loro corpi risorti – nell’Inferno. San Giovanni Damasceno nell’ultimo capitolo della sua descrizione dettagliata della fede parla dello stato dell’anima dopo la morte: “Crediamo anche nella risurrezione dei morti. Perché verrà veramente, ci sarà una risurrezione dei morti. Quando parliamo della risurrezione, pensiamo alla risurrezione del corpo, poiché la risurrezione è la risurrezione dei caduti; ma le anime, essendo immortali, come saranno risuscitate? Avrà tempo la riunione dell’anima al corpo e il risveglio della creatura vivente decomposta nella morta. Così, il corpo stesso, deperibile e in decomposizione, risorgerà ricreato di nuovo, senza corruzione. È stato creato dalla polvere della terra, e Quello che lo ha creato potrà di nuovo ricrearlo anche se si è decomposto ed è tornato al suolo da cui era stato tratto“. L’anima che ha sofferto la separazione riceverà insieme al corpo la ricompensa . “E così risorgeremo, perché le anime si riuniranno con i corpi, immortali e spargenti la corruzione, e appariremo davanti al terribile trono giudicante di Cristo; il diavolo, i suoi demoni e il suo uomo, cioè l’anticristo, i malvagi ed i peccatori saranno messi a fuoco eterno, non materiale, come il fuoco trovato con noi, ma – uno che Dio può conoscere. E quelli che hanno fatto del bene brilleranno come il sole con gli angeli nella vita eterna, insieme al nostro Signore Gesù Cristo, sempre guardandolo e d’essere visti da Lui e assaporare la Sua gioia ininterrotta che fluisce da Lui, glorificandolo con il Padre e lo Spirito Santo nei secoli dei secoli. Amen”.

In conclusione, possiamo affermare che la visione teologico-filosofica di Giovanni Pico della Mirandola ha mostrato nell’uomo l’immagine e somiglianza di Dio nel dono della libertà. Questa, esercitata in maniera adeguata sull’esempio di Cristo che è il modello supremo dell’uomo lo eleva al di sopra di tutta la creazione e dà la possibilità di meritare la vita eterna.

La questione delle cose ultime dell’uomo i Pardi della Chiesa spiegano attraverso le immagini bibliche e le visioni mistiche sperimentate nelle profondità della loro vita spirituale. Il motivo centrale converge nella questione della libertà che in tutti i casi e chiamata all’appello sia da Giovanni Pico che dai Padri.

L’uomo per essere sé stesso deve essere libero per poter esercitare la propria esistenza e per poter esprimersi nella propria scelta della condotta di vita. In ogni caso nella libertà e nella scelta di vita sta la sua grandezza e lui stesso è il padrone del suo destino ultimo: «tu invece, da nessun angusto limite costretto, determinerai da te la tua natura secondo la tua libera volontà, nel cui potere ti ho posto. Ti ho messo al centro del mondo perché di lì più agevolmente tu possa vedere, guardandoti intorno, tutto quello che nel mondo esiste. Non ti ho fatto né celeste né terreno, né mortale né immortale, perché tu, come se di te stesso fossi il libero e sovrano creatore, ti plasmi da te secondo la forma che preferisci. Tu potrai degenerare abbassandoti sino agli esseri inferiori che sono i bruti, oppure, seguendo l’impulso del tuo animo, rigenerarti elevandoti agli spiriti maggiori che sono divini».

Ultima considerazione che ci viene in mente è che l’uomo avendo ricevuto un così grande dono non è stato mai abbandonato a sé stesso ma dall’inizio è stato seguito e formato dal Suo Creatore: in Paradiso aveva la norma e l’imperativo morale di non mangiare da un albero! Sulla terra ha ricevuto i 10 comandamenti e infine ha ricevuto l’esempio dello stesso Signore e Creatore: Gesù Cristo, nato da Maria Vergine, il quale disse: “se vuoi, seguimi”.

[1] GIOVANNI PICO DELLA MIRANDOLA, De Hominis Dignitate, Heptaplus, De Ente et Uno e scritti vari, a cura di E. Garin, vol. 1, Firenze 1942, 103.