Una riflessione dopo lettura della meditazione sul sacerdozio dell’Arcivescovo Fulton J. Sheen deceduto il 9 dicembre 1979 (84 anni) a New York.

L’amministrazione ha sostituito l’evangelizzazione nella vita di molti sacerdoti? Tanti do loro si sono trovati nelle situazioni amministrative più che difficili e pericolose a partire dai conti correnti fino agli stabili parrocchiali ed altri beni appartenenti alla parrocchia. Queste realtà richiedenti dal sacerdote una grande attenzione ha fatto si che sono diventati più manager che pastori. Pensano di più come sfuggire dai guai economici che alla predicazione e all’evangelizzazione delle persone; pensano più come ripagare i debiti che alla precarietà della fede nel suo territorio parrocchiale. Sentendosi abbandonati al proprio destino, con poco aiuto economico da parte della parrocchia (però con gli occhi puntati sempre su di loro) si sentono disanimati, demoralizzati, sconfortati e scoraggiati. Impossibilità di rimediare situazione economica spesso si ripercuote sulla loro preghiera e sulla salute sia fisica che spirituale.

Arcivescovo J. Sheen ricorda imperativo di s. Paolo: “Guai a me se non predico il Vangelo!” (1 Cor 9,16). L’amministrazione è un compito assolutamente fondamentale; ignorarlo significherebbe trascurare il fatto che ogni membro ha un compito specifico nel Corpo Mistico di Cristo. Ma lo Spirito Santo non ci ha chiamati ad essere semplici banchieri, specialisti immobiliari o esperti di design oppure come organizzatori degli eventi culturali e di svago paragonabili all’animazione nei posti di vacanza. Tali attività dovrebbero essere occasionali rispetto al compito principale, che è stato chiarito agli Apostoli. Non hanno ricevuto lo Spirito Santo per sedersi a tavola con un pallottoliere: “Non è giusto trascurare la parola di Dio e servire ai tavoli” (Atti 6, 2). D’altra parte, non basta essere un sacerdote “sacrestano”, supplicando devotamente il Signore di inviarci anime e ignorando il suo comando: “Vai all’incrocio e invita tutti quelli che incontri a una festa” (Mt 22, 9).

Ci sono molti potenziali convertiti intorno a noi. La tragedia non è solo che mancano di fede, ma anche che raramente chiediamo loro di accettarla. Un avvocato non cattolico è stato interrogato sul letto di morte dal suo partner cattolico per vent’anni: “Visto che si avvicina il giorno della tua morte, forse penseresti di unirti alla Chiesa?” Il moribondo rispose: “Se la tua fede ha significato così poco per te nei vent’anni che mi hai conosciuto, significa che ora non può importare molto”.

Le conversioni non sono più difficili ai nostri tempi di quanto lo fossero un tempo, ma è necessario adottare un altro metodo. Oggi le persone cercano Dio non per l’ordine che vedono nell’universo, ma a causa del disordine che vedono in sé stesse. Vengono a Dio attraverso il disgusto e la disperazione interiori, che possono essere descritti come creativi: “Dalle profondità grido a te, Signore!” (Sal 130, 1).

A volte si dice che la religione stia perdendo la sua influenza nel mondo. Se questo è vero in una certa misura, una ragione è senza dubbio che tanti dei nostri credenti non accettano che sembriamo diversi dagli altri. Si accetta un missionario, un sacerdote che vive in una baraccopoli, un santo sacerdote che si sacrifica per amore delle anime basta che non si intrometta nella mia vita e non mi turba con la sua parola. Si giudicano il dubbio di Tommaso troppo duramente a causa delle condizioni alle quali lo ha condizionato la società. L’unica cosa che viene ha chiesta è l’onesta: “Se non vedo il segno dei chiodi nelle sue mani, e metto il mio dito al posto dei chiodi e metto la mia mano nel suo fianco, non crederò” (Gv 20,25).

Nessuna convinzione profonda sorgerà nella mente delle persone scettiche finché non vedranno le mani ferite e il cuore spezzato del sacerdote che offre sé stesso con Cristo. Un sacerdote mortificato, un sacerdote separato da questo mondo: ispirano, rafforzano e cristianizzano le anime oppure diventa motivo di scandalo per la sua diversità?

Ci vuole lavoro per essere il padre di tanti bambini. Nostro Signore ha fatto le due conversioni più grandi quando era stanco. La giornata di otto ore e i cinque giorni lavorativi alla settimana non sono registrati nelle Scritture. Dio ha dato a Mosè centinaia di dettagli del tabernacolo, ma non ha menzionato un tipo di mobile. Non c’era sedia nel tabernacolo. L’altare, il gabinetto, il tavolo, la lampada, gli incensieri e le tende erano elencati, ma non c’era posto per il sacerdote.

Quando possiamo sederci nel senso di prenderci una pausa dall’essere prete-vittima? Nostro Signore si è seduto quando ha dato sé stesso per la nostra redenzione: “avendo offerto un solo sacrificio per i peccati una volta per tutte, si è seduto alla destra di Dio” (Eb 10,12). Leggiamo anche che Cristo “stava” in cielo quando Stefano fu lapidato, e che vide “Gesù in piedi alla destra di Dio” (At 7,55), suggerendo che quando la sua chiesa è perseguitata, nostro Signore sta in cielo. Se questo è davvero un significato simbolico, il Sommo Sacerdote oggi è senza dubbio in piedi per fortificare le nazioni di questa terra che gemono nei loro cuori per la persecuzione. Indubbiamente il lavoro spetta al sacerdote mentre è sulla terra: “Vieni finché hai la luce” (Gv 12,35). Non era una svista di Dio omettere la sedia quando si forniva il tabernacolo. Un sacerdote non è stato ordinato per sedersi. Cristo ha promesso che coloro che persevereranno siederanno con Lui al banchetto celeste. Un padre terreno deve lavorare e stare con la sua famiglia; in modo simile, un padre spirituale deve lavorare e stare con la sua anima. Nostro Signore ci ha dato un esempio: “Là lo crocifissero e con lui altri due, uno da una parte e dall’altra, e Gesù al centro”. (Gv 19:18)

Nel momento sublime dell’amore redentore, Gesù è tra i salvati e i peccatori, tra i buoni e i cattivi. I suoi mediatori e ambasciatori non possono isolarsi dai peccatori più di lui. Siamo separati da loro come santi sacerdoti, ma siamo uniti a loro come sacrificio per i loro peccati. Andiamo in mezzo a loro non tanto per renderli consapevoli del loro errore, ma per spezzare il pane per le loro anime peccatrici. Lo spirito di un vero padre è più canonico che evangelico. Il diritto canonico si occupa del rapporto della Chiesa e dei suoi membri. Il Vangelo parla della missione della Chiesa nel mondo. La parrocchia o la diocesi non definisce i confini della nostra paternità. Più il nostro Signore si avvicinava alla Croce, era sempre più strettamente associato a coloro che non erano ebrei. Dopo la Croce, il suo messaggio riguardava il mondo. Due cose sembrano sempre andare di pari passo con un vescovo o un prete: l’amore per la conversione e l’amore per le missioni estere.

Non dobbiamo sacrificare ma santificare i cattolici che ci sono vicini, ma dobbiamo anche far sì che possano riscattare “le anime di terre lontane” che non hanno mai ascoltato la Buona Novella e che spesso trattano i sacramenti come “i buoni pasto” che gli spettano dalla chiesa. Facciamo tutti insieme lo sforzo che in parrocchia si vede sacerdote che prega anziché manager che organizza al posto dei sacramenti le attività d’animazione per racimolare qualche soldino per le beghe economiche che ha ereditato insieme con la parrocchia.