«Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo» Mc 1, 15.

Riflettiamo sulla conversione e sulla contrizione per concludere con la domanda: senza contrizione è valida la confessione? E di conseguenza cosa è la comunione eucaristica?

La nostra meditazione quaresimale facciamo accompagnare dalla dottrina e l’insegnamento di s. Giovanni Paolo II. La nostra interessante problematica troviamo sviluppa in una amplissima esegesi di su questo tema nella enciclica “Dominum et Vivificantem”[1], che riveste una particolare importanza per noi. Alla domanda rivolta a Pietro dagli ebrei: «Che cosa dobbiamo fare, fratelli?», Pietro risponde: «Pentitevi e ciascuno di voi si faccia battezzare nel nome di Gesù Cristo, per la remissione dei vostri peccati; dopo riceverete il dono dello Spirito Santo».

Il passo fondamentale per la conversione troviamo nel Vangelo di Giovanni 1, 7ss dove Gesù parla di essere «convinti quanto al peccato» che diventa insieme un convincere circa la remissione dei peccati, nella potenza dello Spirito Santo. Pietro nel suo discorso di Gerusalemme esorta alla conversione, come Gesù esortava i suoi ascoltatori all’inizio della sua attività messianica. La conversione richiede la convinzione del peccato, contiene in sé il giudizio interiore della coscienza, e questo, essendo una verifica dell’azione dello Spirito di verità nell’intimo dell’uomo, diventa nello stesso tempo il nuovo inizio dell’elargizione della grazia e dell’amore: «Ricevete lo Spirito Santo». Così in questo «convincere quanto al peccato» scopriamo una duplice elargizione: il dono della verità della coscienza e il dono della certezza della redenzione. …. Quel peccato che si consumò a Gerusalemme il giorno del Venerdì Santo – e anche ogni peccato dell’uomo. Infatti, al più grande peccato da parte dell’uomo corrisponde, nel cuore del Redentore, l’oblazione del supremo amore, che supera il male di tutti i peccati degli uomini. Sulla base di questa certezza la Chiesa nella liturgia romana non esita a ripetere ogni anno, durante la Veglia pasquale, «O felix culpa!», nell’annuncio della risurrezione dato dal diacono col canto dell’«Exsultet!».

Sulla base della dottrina cattolica, per tutti coloro che vogliono ricevere la assoluzione è necessario detestare il peccato, è necessario dolersi dei peccati fatti e proporsi di non peccare più, come diciamo chiaramente nell’Atto di dolore: Mio Dio, mi pento e mi dolgo con tutto il cuore dei miei peccati, perché peccando ho meritato i tuoi castighi e molto più perché ho offeso te, infinitamente buono e degno di essere amato sopra ogni cosa. Propongo con il tuo santo aiuto di non offenderti mai più e di fuggire le occasioni prossime di peccato. Signore, misericordia, perdonami. Il Concilio di Trento, infatti, afferma: “Sono quasi materia di questo sacramento gli atti dello stesso penitente e cioè: la contrizione, la confessione, la soddisfazione. E poiché questi si richiedono, nel penitente, per istituzione divina, per l’integrità del sacramento e per la piena e perfetta remissione dei peccati, per questo sono considerati parti della penitenza”[2].

Il passo successivo è la contrizione. Questa occupa il primo posto tra i atti del penitente, che è il dolore dell’animo e la detestazione del peccato compiuto, col proposito di non peccare più in avvenire. Questo moto della contrizione è stato sempre necessario per impetrare la remissione dei peccati e nell’uomo caduto in peccato dopo il battesimo, esso prepara alla remissione dei peccati solo se congiunto con la fiducia della divina misericordia e col desiderio di fare ciò che ancora si richiede per ricevere nel modo dovuto questo sacramento. Dichiara, quindi, il santo Sinodo, che questa contrizione include non solo la cessazione del peccato e il proposito e l’inizio di una nuova vita, ma anche l’odio della vecchia vita, conforme all’espressione: “Liberatevi da tutte le iniquità commesse e formatevi un cuore nuovo e uno spirito nuovo.” (Ez. 18,31). Certamente colui che riflette su quelle parole dei santi: “Contro di te, contro te solo ho peccato, quello che è male ai tuoi occhi, io l’ho fatto.” (Sal. 51,6). “Sono stremato dai miei lamenti, ogni notte inondo di pianto il mio giaciglio.” (Sal. 6,7); “Racconterò a te tutti i miei anni nell’amarezza della mia anima” (Is. 38,15 secondo la Vulgata), e su altre simili, comprenderà facilmente che esse provenivano da un odio veramente profondo della vita passata e da una grande detestazione del peccato. Insegna, inoltre, il Concilio che, se anche avviene che questa contrizione talvolta possa esser perfetta nell’amore, e riconcilia l’uomo con Dio, già prima che questo sacramento realmente sia ricevuto, tuttavia questa riconciliazione non è da attribuirsi alla contrizione in sé senza il proposito di ricevere il sacramento incluso in essa. E dichiara anche che quella contrizione imperfetta, che vien detta ‘attrizione’ perché prodotta comunemente o dalla considerazione della bruttezza del peccato o dal timore dell’inferno e delle pene, se esclude la volontà di peccare con la speranza del perdono, non solo non rende l’uomo ipocrita e maggiormente peccatore, ma è addirittura un dono di Dio ed un impulso dello Spirito Santo, – che non abita ancora nell’anima, ma che soltanto la muove – da cui il penitente viene stimolato e con cui si prepara la via alla giustizia. E quantunque per sé, senza il sacramento della penitenza, sia impotente a condurre il peccatore alla giustificazione, tuttavia lo dispone ad impetrare la grazia di Dio nel sacramento della penitenza. Scossi, infatti, salutarmente da questo timore, gli abitanti di Ninive fecero penitenza alla predicazione piena di minacce, di Giona ed ottennero misericordia da Dio (Giona 3). Perciò falsamente alcuni accusano gli scrittori cattolici, quasi abbiano insegnato che il sacramento della penitenza conferisca la grazia senza un moto interiore buono di chi lo riceve: cosa che la Chiesa di Dio non ha mai insegnato e mai creduto. Ma anche questo insegnano falsamente: che, cioè, la contrizione sia cosa estorta e forzata, non libera e volontaria.

Ricevere l’Eucaristia stando in peccato grave è un sacrilegio, come chiaramente insegna la sana dottrina. Il Catechismo Maggiore di s. Pio X afferma: “come si chiamano perciò questi due sacramenti? Questi due sacramenti, cioè il Battesimo e la Penitenza, si chiamano perciò sacramenti dei morti, perché sono istituiti principalmente per ridare alle anime morte per il peccato la vita della grazia. Quali sono i sacramenti che accrescono la grazia in chi la possiede? I sacramenti che accrescono la grazia in chi la possiede, sono gli altri cinque, cioè la Cresima, l’Eucaristia, l’Estrema Unzione, l’Ordine Sacro ed il Matrimonio, i quali conferiscono la grazia seconda. Come si chiamano perciò questi cinque sacramenti? Questi cinque sacramenti, cioè la Cresima, l’Eucaristia, l’Estrema Unzione, l’Ordine Sacro ed il Matrimonio si chiamano sacramenti dei vivi, perché quelli che li ricevono, devono essere senza peccato mortale, cioè già vivi alla grazia santificante”.

Qual peccato commette chi riceve uno dei sacramenti dei vivi sapendo di non essere in grazia di Dio? Chi riceve uno dei sacramenti dei vivi, sapendo di non essere in grazia di S. Alfonso M. de’ Liguori afferma a questo riguardo “Il sacrilegio reale è quando si amministra, o si riceve illecitamente qualche sacramento o si profana qualche reliquia, o immagine sagra, o vaso, veste, o altra cosa che si consacra, o si benedice, come camici, tovaglie d’altare, e simili”[3] …. in questa linea capiamo che la Confessione fatta, colpevolmente, senza contrizione è invalida e sacrilega[4]. …. quindi fare la confessione colpevolmente senza contrizione e poi fare la comunione in peccato grave è doppio sacrilegio! Per fare capire meglio quello che stiamo dicendo aggiungiamo le parole forti, meravigliose ma anche tremende del s. Pontefice Giovanni Paolo II che possiamo leggere nella sua Esortazione Apostolica Post-Sinodale “Reconciliatio et Paenitentia” al n.26: “né la Chiesa può omettere, senza grave mutilazione del suo messaggio essenziale, una costante catechesi su quelli che il linguaggio cristiano tradizionale designa come i quattro novissimi dell’uomo: morte, giudizio (particolare e universale), inferno e paradiso. In una cultura, che tende a racchiudere l’uomo nella sua vicenda terrena più o meno riuscita, ai pastori della Chiesa si chiede una catechesi che dischiuda e illumini con le certezze della fede l’aldilà della vita presente: oltre le misteriose porte della morte si profila un’eternità di gioia nella comunione con Dio o di pena nella lontananza da lui. Soltanto in questa visione escatologica si può avere la misura esatta del peccato e sentirsi spinti decisamente alla penitenza e alla riconciliazione.” Solo nella visione escatologica cristiana che ci mette con chiarezza dinanzi alle ultime realtà (morte, giudizio, inferno e paradiso) si ha la misura esatta del peccato e in particolare del peccato grave … e quindi del gravissimo peccato che è il sacrilegio …; solo in questa visione ci si può sentire spinti decisamente alla penitenza e alla riconciliazione!

Dio ci illumini e ci conduca tutti sulla via della verità, della santità e della salvezza! Terminiamo questa nostra meditazione quaresimale con le parole di s. Alfonso: “Prego, terminando, chiunque avrà onorato di leggere … per carità mi raccomandi a Gesù Cristo nel santo sacrificio della messa, o vivo o morto ch’io sia, acciocché mi usi misericordia; mente ‘io vedendomi (benché per altra via) nel grande impiego di dovere attendere ancora alla salute delle anime, molto temo della salute propria, temendo di non soddisfare come debbo all’obbligo mio. Ed io all’incontro, miserabile qual sono, prometto di pregare sempre il nostro Salvatore Gesù, e la sua ss. madre Maria, per tutti i pastori della gregge cristiana, acciocché siano tutti santi, e infiammino tutto il mondo nell’amore di Gesù Cristo. Sia sempre lodato Gesù nel ss. Sacramento, e Maria sempre Vergine Immacolata.”

[1] http://w2.vatican.va/content/john-paul-ii/it/encyclicals/documents/hf_jpii_enc_18051986_dominum-et-vivificantem.html

[2] Concilio di Trento, Sessione XIV, 25 novembre 1551, Dottrina dei santissimi sacramenti della penitenza e dell’estrema unzione., cap. 3, Denz.-Hün. 1673

[3] Confessore diretto per le confessioni della gente di campagna, c. IV p. II

[4] Van Kol “Theologia Moralis”, Editorial Herder, Barcellona, 1968, t. II, p. 217

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