“Il prete del sangue“ – Don Dante Galli

Sono passate alcune generazioni dagli eventi che stiamo per raccontare, ma crediamo che sia doveroso ricordare un prete che, sia pure per breve tempo, ha segnato la storia di Rapolano e soprattutto della sua comunità parrocchiale.

Erano i mitici anni cinquanta. Il Paese era orgoglioso dei suoi stabilimenti termali: L’Antica Querciolaia, Le Terme San Giovanni, il Bagno Temperato, i Bagni Freddi, tutti allora a conduzione privata. E poi le cave, nel pieno della riconversione industriale dopo lo sbandamento della guerra. Nonostante questo Rapolano manteneva ancora una solida fisionomia rurale, con la maggior parte delle famiglie e degli abitanti del comune dediti all’agricoltura, ancora saldamente  ancorata ai feudali canoni della mezzadria, anche se già cominciava a profilarsi il fenomeno dell’abbandono delle campagne.

L’Italia rinasceva dalle macerie del secondo conflitto mondiale, ma a Rapolano le macerie lasciate dalle mine tedesche e dalla guerra di liberazione si vedevano ancora. E non solo quelle delle case e degli edifici pubblici distrutti. Il Paese era diviso, la gente era divisa, la parrocchia era divisa.

Il 12 luglio 1949 Papa Pio XII promulgava il decreto del Santo Uffizio che non solo condannava l’ideologia marxista (del resto messa all’indice da oltre un secolo), ma scomunicava tutti coloro che aderivano al comunismo. Era ancora parroco in quegli anni l’arciprete don Jacopo Gennai il cui apostolato aveva attraversato, forse con un po’ di compiacenza di troppo, buona parte degli anni del fascismo e che subito si adoperò per applicare alla lettera il decreto papale. Fu così che più della metà dei rapolanesi cominciarono a non frequentare più la chiesa né i sacramenti. Una frattura dolorosa che allora divise intere famiglie e i cui effetti sono arrivati, purtroppo, fino ai giorni nostri. Don Gennai aveva ospitato da tempo nella casa parrocchiale, insieme alla storica perpetua, la signora Teresa (sostituita, dopo la sua dipartita, dall’energica signora Assunta), l’ingombrante famiglia del fratello, il signor Vitaliano che i parrocchiani rimasti praticanti, sempre più insofferenti della sua invadenza e della situazione di sfaldamento della comunità, avevano soprannominato “Buccolone”. Il fratello dell’arciprete si era infatti ritagliato un ruolo decisamente spregiudicato nell’economia parrocchiale, come amministratore “pro tempore“ dei beni parrocchiali e anche come autoritario esecutore dei progetti pastorali del fratello parroco. Tanto che anche il coadiutore canonico dell’arciprete, il cappellano Don Pietro Basagni, si limitava ad officiare la chiesa del Corpus Domini, storicamente affidata alla cappellania e ad amministrare il “beneficio” connesso (i due poderi di Pelacane e di Citille).

La svolta avvenne quando il quasi novantenne Mons. Emanuele Mignone, vescovo di Arezzo, diocesi cui appartiene Rapolano sebbene in provincia di Siena, decise di trasferire Don Pietro a parroco di Farnetella. Al suo posto arrivò don Giuseppe Mugnaioli, fresco d’ordinazione, giovane, colto e dall’eloquio spedito e affascinante. Il nuovo cappellano, compresa subito la situazione, si mise immediatamente al lavoro e se pure continuò ad officiare la chiesa del Corpus Domini, come coadiutore dell’arciprete intraprese molte iniziative per cercare di ricucire il tessuto sociale e comunitario della parrocchia.

Così si capì subito che la visione pastorale di Don Gennai aveva ormai fatto il suo tempo. Occorreva quindi un’energica iniziativa presso il Vescovo. Incoraggiati da Don Giuseppe alcuni uomini più vicini alla parrocchia contattarono il cancelliere vescovile, il canonico Tanganelli, un amico che conosceva bene Rapolano e la situazione della Chiesa locale in quanto era solito ogni anno trascorrere alcuni giorni di riposo e di cura alla Terme San Giovanni, ospite della locanda della Signora Ottavia Ferri. Il canonico non si tirò indietro e dopo alcuni giorni di attesa comunicò che l’udienza con il Vescovo era stata fissata. L’incontro con il presule fu brevissimo e per molti versi enigmatico e deludente. Mons. Mignone ascoltò con  accondiscendente pazienza l’esposizione della situazione  e la richiesta di un avvicendamento alla guida del popolo di Dio nella parrocchia di Rapolano. Poi, dopo un attimo di silenzio, con l’arguzia che tutti gli riconoscevano, rispose con una frase alquanto sibillina: “ piove sul bagnato! “. Detto questo, ammise tutti i presenti al bacio dell’anello e congedò senza dire altro alla delusa comitiva. La lapidaria risposta del Vescovo fu compresa solo diversi giorni dopo quando il canonico Tanganelli comunicò che Rapolano avrebbe avuto presto un nuovo parroco. Un prete, a suo dire, tra i più preparati e più energici della Diocesi.

Fu così che dopo un po’ di tempo dal colloquio con il Vescovo, il primo gennaio 1955, i rapolanesi conobbero Don Dante Galli, un uomo alto, ben piazzato, una “montagna di prete“ disse qualcuno, con un vocione e una fisionomia austera da incutere a prima vista rispetto, se non addirittura soggezione. Nessuno poteva immaginare, nei primi giorni del suo insediamento in parrocchia, che forse il buon Dio aveva fatto un vero miracolo.

Don Dante era nato a Castelluccio, una frazione del comune di Capolona, in provincia di Arezzo, l’8 settembre 1901 da una famiglia contadina profondamente religiosa. Un suo cugino, anch’egli sacerdote e di una rassomiglianza impressionante con lui, sarà per molti anni l’arciprete di Lucignano. Dopo gli studi liceali e teologici nel seminario di Arezzo, una volta ordinato sacerdote dal vescovo Mignone, gli era stata affidata la  piccola parrocchia di Faltona, nel comune di Talla sui monti del Casentino. In queste zone la guerra non aveva risparmiato atrocità, lutti e distruzione. Così il giovane curato si era trovato ad affrontare, oltre che le problematiche spirituali del piccolo “gregge” a lui affidato anche quelle materiali. Erano molti in quegli anni gli orfani rimasti senza una famiglia e anche gli edifici di culto dovevano essere restaurati e restituiti alla fruizione delle comunità. Faltona non faceva eccezione. Don Dante si era messo subito al lavoro e, non potendo contare su un cospicuo patrimonio di famiglia, indebitandosi fino al collo, aveva restaurato la chiesa parrocchiale e, soprattutto, aveva costruito una casa di accoglienza (un orfanotrofio si diceva in quegli anni) per accogliere e far studiare  ragazzi e ragazze della zona rimasti soli al mondo, incaricandosi anche del loro mantenimento. La gestione pratica della casa l’aveva affidata ad una piccola comunità di suore che, però, avevano a loro volta bisogno di essere sostenute economicamente. Era ancora intento a cercare di venir fuori dagli impegni finanziari che si era assunto quando dalla Curia di Arezzo era arrivata la “doccia fredda” del trasferimento all’arcipretura di Rapolano.

Per i più sarebbe sembrata una promozione: da una sperduta località di montagna ad una nota  e ridente cittadina termale. Anche il titolo presbiterale (da curato ad arciprete) lo faceva intendere. Don Dante però non ne era sodisfatto. Avrebbe voluto rimanere a Faltona, tra la sua gente e portare a termine i suoi progetti casentinesi, dato che ancora si dovevano onorare molti impegni di carattere economico. Tuttavia, per obbedienza, come aveva giurato al vescovo al momento dell’ordinazione, accettò il trasferimento, sia pure a malavoglia e, accompagnato dai suoi due anziani genitori, il Sig. Oreste e la Sig.a. Maria e da una giovane nipote (molto dopo, per necessità,  lo avrebbe raggiunto anche la sorella con i due figli e il marito disoccupato in cerca di un lavoro), raggiunse Rapolano.

Non fu però un trasferimento indolore.

Don Gennai chiese ed ottenne di continuare a risiedere, con il fratello e la sua pittoresca famiglia, nella parte più spaziosa e accogliente della canonica, mentre anche parte del “beneficio” parrocchiale fu diviso tra l’arciprete emerito, che doveva provvedere a questo punto solo al suo sostentamento e il nuovo parroco che, invece, si doveva accollare tutti gli oneri della parrocchia. Oneri che erano tanti e gravosi, come si dovette accorgere subito Don Dante che, personalmente, vi doveva aggiungere anche quelli lasciati a Faltona.

Il Concilio Ecumenico Vaticano Secondo e il nuovo Concordato tra la chiesa e lo Stato Italiano erano ancora lontani. La liturgia seguiva sempre i canoni fissati dal Concilio di Trento e non esisteva ancora l’Istituto per il sostentamento del Clero. La cosiddetta “ Mensa Vescovile” cercava di equilibrare le cose e di aiutare i preti che non potevano contare su sufficienti risorse, ma non sempre la Curia poteva intervenire con equità. Don Dante era scoraggiato: gli edifici parrocchiali erano fatiscenti, persino il tabernacolo della chiesa madre di Santa Maria  Assunta era in uno stato di degrado tale da non poter più ospitare il Santissimo Sacramento.

Nella Pieve di San Vittore mancava ancora l’impianto di energia elettrica (anche per problemi legati all’attraversamento della ferrovia  mai risolti) e la chiesa veniva illuminata ancora con le candele. Per non parlare dei paramenti liturgici, tutti lisi e spesso a brandelli.

Il nuovo arciprete dovette giocoforza rimboccarsi le maniche. Per il tabernacolo si ricorse alla perizia di un vecchio scalpellino, il signor Barabesi (padre del più conosciuto Wolfango che per decenni a seguire ricoprirà l’incarico di sagrestano) che con un blocco di travertino donato dalla cava “Le  Querciolaie“ realizzò un vero e proprio capolavoro.

Per i numerosi paramenti mancanti non restò altro che l’acquisto, con una spesa che fu coperta con l’ennesimo “rosso” bancario a carico dell’arciprete. Don Dante però non si perse d’animo, anche se dovette stringere la cinghia insieme ai suoi familiari. Iniziò per lui e per i suoi cari un periodo di molte privazioni che venivano affrontate sempre con molta dignità. Nessuno, nella cerchia dei più vicini alla parrocchia, si accorgerà per molto tempo della reale situazione di indigenza della famiglia dell’arciprete. Solo alcune volte, soprattutto nell’approssimarsi della scadenza di alcuni impegni bancari, l’Arciprete dava sfogo allo sconforto nello studio della casa del vicedirettore del Monte dei Paschi che cercava in qualche modo di consigliarlo per il meglio, cercando fin dove possibile anche di intravedere strade praticabili per ottenere rinvii e differimenti. Colloqui che si svolgevano nella più assoluta segretezza rotta qualche volta dalla curiosità dei familiari del funzionario, suscitata spesso da singhiozzi che provenivano dalla stanza.

Un aneddoto è emblematico di quello che stiamo raccontando e di cui chi scrive, anche se allora giovanissimo, è stato testimone. Era un Natale di uno dei cinque anni in cui Don Dante è stato parroco di Rapolano (i ricordi sbiaditi non permettono di risalire all’anno esatto). Dopo la Messa solenne delle undici, il Sor’ Umberto Simeoni propose a mio padre di andare a porgere gli auguri all’Arciprete e ai suoi familiari. Io, che non mi staccavo mai dai pantaloni del babbo, li seguii. Don Dante era già rientrato in casa. Fummo accolti nell’angusta cucina. La tavola era sobriamente apparecchiata e già pronti per sedersi notammo, oltre all’Arciprete, i suoi genitori e la nipote. Fu allora che il Sor’ Umberto domandò scherzosamente alla signora Maria che cosa avesse cucinato di buono per il pranzo di Natale. L’imbarazzo si fece palpabile e la risposta ci lasciò sconcertati e imbarazzati a nostra volta : “Solo un po’ di polenta in bianco“. Notai subito gli occhi lucidi di mio padre, mentre il Sor’ Umberto strinse i pugni e subito esclamò: “Signor Arciprete, la prego, prenda sua mamma, suo babbo e sua nipote e venite a casa mia. Io, mia moglie e tutti i miei saremmo onorati se voleste pranzare con noi oggi“. A quell’invito anche gli occhi di Don Dante divennero umidi e accettando la proposta disse ai suoi di prepararsi per seguire il signor Simeoni. Rientrati a casa mio padre ed io raccontammo l’episodio e per noi il pranzo di quel Natale si caricò di una indimenticabile tristezza.

Un prete povero, è vero, ma di una povertà carica di immensa generosità. Lo abbiamo detto, erano gli anni che seguirono alla scomunica del comunismo e che videro la comunità di Rapolano estremamente lacerata. In un paese rurale ed operaio furono in tanti ad aderire al marxismo e ai partiti comunista e socialista. Molti cominciarono a disertare la Chiesa e i Sacramenti, mentre la lotta politica e sociale si inaspriva sempre di più. Il clero era visto con sospetto se non apertamente ostile. L’atmosfera di concordia, solidarietà e pacificazione del Concilio Vaticano II era ancora lontana, ma Don Dante non era un prete da schieramento e si può dire che, per un misterioso disegno della Provvidenza, il Concilio l’avesse già nel DNA. Dall’alto della sua stazza e della sua bonomia non badava a tessere o appartenenze. Per lui Rapolano, la comunità, più che la Chiesa erano la casa di tutti e lui si sentiva a suo agio con tutti e in tutti i luoghi del paese. Molti uomini non venivano in chiesa? E lui, quasi tutti i giorni, dopo pranzo, usciva in abito talare e andava al bar per incontrare, fare quattro chiacchere e fumare una sigaretta con chi trovava, non disdegnando neppure una partita a scopone o a tre sette. “Almeno giocando col prete – diceva – qualcuno avrà sulla coscienza qualche bestemmia in meno“. Un precursore senza saperlo, solo per vocazione evangelica, di quella “Chiesa in uscita” che sarà la “cifra” del pontificato di Papa Francesco. A chi poi gli faceva notare che per un prete il “vizio” del fumo non era molto opportuno rispondeva con la celebre frase di un Papa : “ma che vizio! E’ una virtù, perché se fosse un vizio l’avresti anche tu“. Se incontrava per strada noi ragazzi si avvicinava e si frugava subito in tasca. Soldi non ne uscivano, ma caramelle sì insieme all’invito a vedersi in parrocchia.

Per lui più che le varie articolazioni o associazioni parrocchiali contavano le persone, le loro storie, i loro problemi. Noi chierichetti ne avevamo prove inconfutabili durante la benedizione pasquale delle case. Era per noi consuetudine accompagnare il sacerdote con il secchiello dell’acqua benedetta e con il paniere per raccogliere le offerte in denaro e in natura (soprattutto uova) destinate in parte al padre predicatore del “Quaresimale”. Spettava a noi anche l’incombenza di scrivere in un quaderno i nominativi dei membri della famiglia visitata per l’annuale censimento parrocchiale. Data la vastità del territorio che allora contemplava molte case sparse e molti insediamenti poderali i sacerdoti addetti alla benedizione erano più di uno, per lo più, oltre al cappellano, i parroci dei paesi vicini. Ebbene: quando capitava di accompagnare l’Arciprete, il più delle volte tornavamo in parrocchia con il cesto vuoto e solo con il quaderno del censimento. Chi scrive può testimoniare che in tanti casi, dopo aver benedetto una per una le varie stanze dell’appartamento, Don Dante ordinava perentoriamente, senza dare tante spiegazioni, di lasciare su un tavolo di quella casa tutte le offerte raccolte fino a quel momento, comprese ovviamente le uova. Lui solo sapeva il perché.  E noi, ormai abituati alla “rude” bontà di quell’uomo di Dio eseguivamo senza fare domande. Del resto eravamo chierichetti in servizio permanente effettivo. Fu infatti Don Dante, insieme al cappellano don Mugnaioli, ad organizzare per la prima volta un gruppo di ministranti che prestassero servizio durante le liturgie. Un gruppo consapevole a cui aveva insegnato persino il latino delle formule della Messa che non veniva ancora celebrata in lingua volgare. Aveva comperato piccole talari rosse e “cotte” trinate di cui andavamo fieri e che fecero la loro bella figura anche quando ad Arezzo venne organizzata la gara tra tutti i gruppi di ministranti della Diocesi, gara che ci vide ovviamente orgogliosi vincitori.

Man mano che passava il tempo non si contavano più le iniziative messe in piedi dall’Arciprete per amalgamare sempre di più la gente di Rapolano. Venne rivitalizzata l’attività dell’Azione Cattolica in tutte le sue articolazioni, maschili e femminili. Nacque il circolo delle Acli con il primo apparecchio televisivo in funzione in paese, che vedeva ogni sera la sala dell’ex teatrino parrocchiale stracolma di persone per seguire i primi avvincenti programmi della RAI,”Carosello“ compreso. E quando arrivò anche, nei pomeriggi, la TV dei ragazzi, con “Rin Tin Tin“, la “Freccia Nera“ ecc., Don Dante apriva la sala per permettere a tutti i ragazzi rapolanesi di seguire le avventure dei propri beniamini: “purché abbiate già fatto i compiti e non facciate molta confusione!“, tuonava.

Arrivò poi anche il cinema parrocchiale con la proiezione, ogni domenica, pomeriggio e sera, delle pellicole distribuite dalla “San Paolo Film” . A questo proposito si deve ricordare che l’iniziativa fu possibile grazie alla generosità di un imprenditore rapolanese, il signor Domenico Neri che offrì all’Arciprete la cifra necessaria all’acquisto della macchina da proiezione, un gioiello per quel tempo, ”targata” Siemens. L’elenco  delle realizzazioni e delle novità portate da Don Dante in parrocchia, sempre ascoltando e coinvolgendo tutti coloro che volessero dare una mano, sarebbe troppo lungo da esporre nello spazio di questo breve ricordo. Compresi i numerosi soggiorni estivi in Casentino offerti ai ragazzi e ai giovani rapolanesi a Faltona, nel complesso di accoglienza costruito con tanti sacrifici dall’Arciprete nei suoi primi anni sacerdotali.

Non è possibile però ignorare un aspetto della generosità e della bontà di Don Dante legate a una sua personale e per tanto tempo nascosta iniziativa che avrebbe poi fatto parlare di “santità” a  quanti ne ricevettero beneficio o esempio. In alcuni giorni della settimana l’Arciprete, così estroverso e disponibile con tutti, era introvabile. Anche i familiari parevano non sapere dove cercarlo (si saprà poi che avevano ricevuto la rigorosa consegna di non dare spiegazioni). Il “mistero” fu svelato a Vittorio Farnetani da una suora amica, suor Rosalia, caposala della sezione ”isolamento” dell’ospedale di Santa Maria della Scala, come veniva allora chiamato il reparto di malattie infettive, che raccontò come l’Arciprete, in alcuni giorni stabiliti, col treno o con l’autobus di “Capanna”, si recava proprio in ospedale a Siena per donare il sangue. A quel tempo non esistevano ancora le associazioni di donatori e chi ne aveva bisogno, per se o per i propri familiari, soprattutto per delicati interventi chirurgici, doveva rivolgersi alla generosità di familiari, parenti o conoscenti. E spesso non si riusciva neppure a raggiungere la disponibilità richiesta, tanto che alcuni interventi dovevano essere rimandati fino al raggiungimento delle “sacche” occorrenti. Fece quindi scalpore la presenza di quel “ pretone” che si aggirava per le corsie dell’ospedale e donava sangue a quanti ne avessero bisogno, senza conoscere i beneficiari e soprattutto senza fare distinzioni di sorta.  A Siena si cominciò a parlare del “Prete del Sangue” tanto che anche l’Arcivescovo incominciò ad interessarsi a questo inaspettato genere di apostolato. La notizia passò ovviamente subito di bocca in bocca così che anche a Rapolano non ci fu famiglia, coinvolta in qualche serio problema di salute, che non potesse contare “sul sangue dell’arciprete“, evidentemente di un gruppo particolare, adatto ad essere accolto da più categorie di pazienti. E alla morte prematura di Don Dante furono decine e decine le testimonianze di chi aveva beneficiato di questa sua silenziosa generosità. A chi scrive è rimasta impressa  quella di una nota parrucchiera rapolanese, la signora Ivona Ciacci, che si era rivolta a Don Dante durante la lunga e dolorosa malattia della mamma: “per me è morto un santo!”.

“Il prete del sangue”, tanto altruista e generoso da non badare neppure alla propria salute. Abbiamo già parlato delle scarse possibilità economiche dell’Arciprete che arrivavano persino a far scarseggiare la sua tavola. Se ne era accorta suor Rosalia che ne aveva parlato con l’arcivescovo che, dal canto suo, aveva dato disposizioni per convincere Don Dante a fermarsi a Siena per mangiare adeguatamente almeno nei giorni in cui donava il sangue. Così si escogitò un piccolo escamotage.

Funzionava a quel tempo nel chiostro della Basilica di San Domenico la mensa studentesca del CIF (Centro Femminile Italiano) aperta non soltanto agli studenti, ma anche a impiegati e lavoratori in genere .La frequentavano in quegli anni anche i fratelli Ghettini, (Gado e Gasparo), due artigiani rapolanesi del marmo e del travertino, autentici artisti della pietra che la Sovrintendenza ai beni artistici e storici di Siena utilizzava per i delicati lavori di ripristino e restauro di diversi monumenti come il Duomo, la Basilica di San Domenico o il complesso della casa di Santa Caterina. Lavori anche oggi visibili, anche se gli autori di tanta bellezza sono stati prematuramente dimenticati. Citarli è sembrato doveroso dato che furono testimoni di quello che stiamo per raccontare. La mensa del CIF era diretta, guarda caso, da due sorelle rapolanesi, entrambe nubili, Vittoria e Nara Fineschi che avevano ancora la casa a Rapolano, anche se risiedevano ormai a Siena da tempo e che conoscevano molto bene l’arciprete. Si decise allora che ogni qual volta Don Dante si aggirava tra le corsie dell’ospedale suor Rosalia doveva avvertire uno studente rapolanese, che a mezzogiorno pranzava quasi sempre alla mensa di San Domenico. Questi, a sua volta, doveva aspettare all’uscita dell’ospedale l’Arciprete, convincendolo a seguirlo alla mensa del CIF dove le signorine Fineschi avrebbero provveduto a far recuperare al generoso donatore, con una buona dose di filetto, il sangue perduto. Una “cura” che andò avanti per un po’ di tempo ma che purtroppo non bastò a fermare il male che a poco a poco stava minando la salute di Don Dante e che lo avrebbe portato alla tomba.

Eravamo già nel quinto anno della presenza a Rapolano dell’Arciprete ormai amato da tutti. Sempre più spesso Don Dante, che continuava comunque a donare il sangue, veniva interrotto da spasmodici colpi di tosse. Anche la voce si era fatta più cavernosa e il viso più pallido. Nel tardo pomeriggio di un giorno di fine estate, mentre chi scrive era intento a studiare e suo padre era rientrato a casa da poco, si sentì suonare alla porta. Era Francesco Libri, il postino, che diceva di correre subito in parrocchia perché Don Dante si era sentito male. Trafelati giungemmo in canonica dove trovammo la sorella del parroco e altri amici preoccupati. Don Dante era  a letto in camera sua assistito dalla mamma e dalla nipote. Ci dissero che si stava aspettando il medico. Il Dottor Valenti arrivò poco dopo ed entrò subito in camera. Passarono soltanto pochi minuti e lo vedemmo uscire accigliato, come spesso gli capitava, ma quella volta anche estremamente commosso.

Di quel momento ricordo solo un particolare difficile da dimenticare. Il dottor Valenti era uno dei più apprezzati medici della zona, improbabile che sbagliasse una diagnosi. Nella mia memoria sono rimasti solo l’immagine del Dottor Pietro che abbraccia mio padre e la sua frase lapidaria: “… caro Vittorio presto si cambia arciprete!”. Una “sentenza”, come i rapolanesi chiamavano le diagnosi del Dottor Valenti, che non lasciava scampo. I mesi che seguirono furono un vero e proprio calvario per Don Dante, con ricoveri a catena e soprattutto con la certezza di non poter più ritornare a Rapolano. Lasciò infatti la parrocchia il 16 novembre 1959. Unico conforto l’affetto e la riconoscenza di centinaia di rapolanesi che misero in piedi veri e propri pellegrinaggi al suo capezzale nei vari ospedali dove di volta in volta veniva ricoverato. L’Arciprete morì poco dopo senza più rivedere il  “suo” Paese che ai suoi funerali, a Casteluccio di Capolona dove era nato e dove riposa, gli tributò un omaggio corale che passò quasi per un  trionfo. Il “Prete del sangue” non era più con noi, ma aveva lasciato a Rapolano un’impronta difficile da cancellare. Qualcuno anche oggi, a tanti anni di distanza, è convinto sia stata “l’impronta di un santo”.

Racconto di don Dante scritto da sig. r Claudio Farnetani.